“Buon anno nuovo”, ma non per Gaza
Come nel caso di ogni tragedia che è il risultato dell’occupazione e dell’assedio, i palestinesi a Gaza fanno del loro meglio per essere sicuri che questo non succeda mai più.
di Ghada Ageel – Middle East Eye
(traduzione di Amedeo Rossi)
Lo scorso fine settimana è stato molto freddo ad Edmonton, in Canada. La temperatura è scesa a meno 30° e, per effetto del vento, è crollata a meno 37°. Le mie ciglia si sono congelate così come le dita dei piedi nei pesanti doposci che indossavo mentre spalavo l’enorme quantità di neve fuori dall’ingresso di casa mia. Dopo che hanno suonato il campanello alla porta ed è arrivato Logan (di 6 anni), amico di mio figlio, i due bambini hanno iniziato a giocare a nascondino. Allora ne ho approfittato per chiamare a Gaza la mia famiglia e sapere come stessero affrontando il freddo, le interruzioni dell’elettricità e la vita sotto assedio. Volevo anche augurare loro un felice anno nuovo. Sono stata contenta che abbia risposto mia sorella e non la mia super protettiva mamma, che cerca sempre di filtrare le notizie che mi da per paura che mi provochino troppa preoccupazione, un compito che è di solito molto difficile, in quanto le notizie che arrivano da Gaza sono piuttosto deprimenti o strazianti.
Con solo quattro ore di elettricità al giorno, seguite da 12-15 ore di interruzione, nell’inverno di Gaza sotto assedio e tra le devastazioni e le distruzioni provocate dall’aggressione del 2014, la vita che era già resa dura e miserabile dall’occupazione è diventata ancora più pesante e insopportabile.
Mia sorella mi ha raccontato la storia di due giovani fratelli della famiglia Alhabeel, Khalid e Omar, di 3 e 4 anni rispettivamente. Hanno pagato un prezzo terribile, irrimediabile. Quando il 3 gennaio si è sviluppato un incendio da una candela che la famiglia aveva acceso per illuminare la loro casa nel campo di rifugiati di Shati, a est di Gaza City, le loro vite innocenti si sono spente.
Quando si sono accorti del fuoco, Omar e Khalidi si sono nascosti in uno sgabuzzino, pensando che li avrebbe protetti dall’incendio. Nella maggior parte dei casi, un ripostiglio è un posto ideale perché i bambini si nascondano, ma purtroppo non in Palestina, compresa Gaza. Lì i bambini, come il resto della popolazione, si vedono negare i diritti fondamentali, compreso il diritto di essere protetti. Uno sgabuzzino è anche il posto in cui mio figlio Aziz si è nascosto da Logan mentre stavano giocando a nascondino durante la mia conversazione telefonica. Quando è stato trovato, le loro risa hanno pervaso l’aria della casa; nel campo di Shati, invece, l’aria del ripostiglio è stata pervasa solo dalle urla e dalle lacrime degli innocenti che sono morti soffocati.
Questo episodio sarebbe stato assolutamente normale, se fosse stato il risultato di una distrazione durante una festa di compleanno o un incontro romantico, come accade a volte in qualunque altro posto al mondo. Ma l’incidente della candela a Gaza non era normale. Lì le candele vengono accese ogni notte per illuminare l’oscurità che 1.800.000 persone sono obbligate a subire. Dal 2006 Israele ha imposto il proprio blocco per punire i palestinesi che hanno esercitato il diritto di eleggere i propri rappresentanti in parlamento. Avendo preso di mira deliberatamente l’unico impianto elettrico di Gaza durante la loro ultima aggressione, la distruzione di buona parte della rete elettrica che arriva da Israele, che rifornisce le zone orientali della Striscia, e le restrizioni imposte al rifornimento di combustibile per far funzionare quel poco che rimane dell’impianto, per non parlare delle divisioni politiche interne dei palestinesi e dei loro problemi finanziari, gli israeliani hanno fatto in modo che le notti dei gazawi siano più cupe, più lunghe e più fredde.
Benché tutti i fattori summenzionati abbiano giocato un ruolo nel lutto che ha colpito la famiglia Alhabeel, le cause implicite che stanno dietro alla tragedia mettono chiaramente in evidenza l’inumano blocco guidato da Israele e mantenuto dai suoi alleati. Omar e Khalid sono stati le vittime del crimine di punizione collettiva, e i governi occidentali hanno permesso che ciò avvenisse e che passasse inosservato per il nono anno consecutivo. La storia di quei bambini è una delle centinaia che i principali mezzi di comunicazione hanno fatto in modo di ignorare. I media non hanno reso giustizia alle vittime palestinesi dell’occupazione ed aiutano Israele a commettere impunemente i suoi crimini. I media ignorano anche la complicità di altri poteri regionali che stanno aiutando a mantenere il blocco e incoraggiando Israele a proseguire ancora più a fondo ad opprimere i palestinesi.
L’interruzione di corrente elettrica è solo un aspetto dell’orrenda realtà che i palestinesi devono affrontare giornalmente, sette giorni su sette, 365 giorni all’anno da ormai molti anni. Un’intera generazione è nata ed è cresciuta al buio, una generazione che è stata testimone di tre guerre in meno di sei anni. E’ anche una generazione che è stata lasciata sola nella sua lotta personale per superare i traumi e i danni psicologici provocati da 51 giorni di aggressione israeliana. Nel frattempo i loro genitori si vedono negare il diritto di ricostruire e ancor meno di affrontare i propri lutti e la propria pena.
Al tempo della conferenza dei donatori per la ricostruzione del Cairo nell’ottobre 2004, Oxfam sostenne in un rapporto che a Gaza ci sarebbero voluti 50 anni per la ricostruzione se il blocco israeliano non fosse stato rimosso. Lo stesso avvertimento venne fatto dal segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon, il quale affermò che ottenere la stabilità significava “togliere il blocco nei confronti di Gaza” e anche porre fine all’ “occupazione della terra palestinese durata mezzo secolo.” Quattro mesi dopo la carneficina a Gaza e tre mesi dopo la conferenza dei donatori, il blocco era ancora presente e la ricostruzione era in stallo, lasciando migliaia di vittime senzatetto ospitate nelle scuole dell’ONU o a dormire in tende sulle rovine delle loro case.
Omar e Khalid non sono state le prime vittime e forse non saranno le ultime se questo blocco inumano continua. Il 4 gennaio, il centro Al-Mezan per i Diritti Umani [ONG che ha sede nel campo profughi di Jabalia, nella Striscia di Gaza.N.d.tr.] ha pubblicato un rapporto in cui si afferma che dal 2010 26 civili, compresi 21 bambini, sono morti bruciati vivi o soffocati nella Striscia di Gaza a causa della continua crisi elettrica.
Centinaia di palestinesi del campo profughi di Jabalia, al nord di Gaza City, hanno fatto una manifestazione il 5 gennaio per protestare contro i continui black out elettrici, la chiusura dei confini, la negazione del diritto alla ricostruzione ed altre decisioni politiche israeliane sbagliate. Queste politiche includono il fatto di “mettere a dieta” i palestinesi (come Dov Weisglass, un consigliere israeliano, ha affermato [si riferisce a un documento riservato del Coordinatore Governativo Israeliano delle Attività nei Territori Occupati del 2008 che stabilisce in 2.279 le calorie da permettere di consumare agli abitanti di Gaza per mantenerli al limite della malnutrizione. N.d.tr.]) che li obbligherà a implodere.
Poiché durante la conversazione telefonica la mia voce era rimasta bloccata dall’angoscia per un minuto ed i secondi di silenzio si succedevano, mia sorella ha tentato di spostare la conversazione su un altro argomento, parlando di come i suoi figli si stavano preparando per gli esami finali a scuola. Di nuovo, e senza avere l’intenzione di farlo, ha parlato della stessa situazione di candele, oscurità, delle prospettive scolastiche dei bambini frustrate dalla mancanza di luce che permetta di studiare, del clima freddo, della chiusura dei confini, della mancanza di beni essenziali e soprattutto di speranza che a volte porta a tragedie peggiori.
Zaki Alhoubi, un ragazzo palestinese diciassettenne di Gaza, è stato la prima vittima palestinese dell’anno. Il 2 gennaio Zaki è stato colpito e ucciso dalle guardie di frontiera egiziane. L’adolescente stava cercando di attraversare la barriera che separa il ghetto di Gaza dall’Egitto nel tentativo di cercare un futuro migliore. Il valico di Rafah verso il mondo esterno, l’unica via di fuga per i gazawi non controllata da Israele, è rimasto chiuso durante quasi tutto l’anno passato e i funzionari applicano criteri molto rigidi quando decidono chi ha il permesso di andarsene. Dall’inizio del 2014 questo valico è rimasto quasi sempre chiuso, salvo che in pochi giorni in cui è stato parzialmente aperto. La speranza di Alhoudi di avere un futuro libero e dignitoso gli è costata la vita. La pallottola ha rappresentato un messaggio molto chiaro: i gazawi non possono sognare, ancora meno vivere i propri sogni. Non viene loro consentito di sfidare lo status quo, che deve essere mantenuto finché ci sarà l’esplosione prevista, che qualcuno spera sia un’implosione. Alhoudi è stato ucciso quando cercava di far suonare un campanello d’allarme in merito alle peggiori condizioni di vita che un essere umano può sopportare nel XXI° secolo. E’ stato ucciso per colpire il suo tentativo di aprire un buco in uno dei principali muri del ghetto di Gaza.
Questi muri circondano i corpi e le anime di una popolazione giovane, il 43% della quale ha meno di 14 anni. Quali possibilità rimangono per questi bambini e adolescenti? Non possono dimenticare che la Palestina è dominata da un pesante potere coloniale israeliano e che l’occupazione ed il blocco sono le principali barriere che li separano da una vita dignitosa. Negare per troppo tempo a un popolo le sue aspirazioni è un processo molto pericoloso, ed i governi che sono complici e quelli che stanno a guardare in silenzio hanno una pesante responsabilità. Si può star certi che i palestinesi assediati non lo dimenticheranno. La giustizia rinviata è una giustizia negata.
Temendo per la vita delle mie nipotine e dei miei nipotini, ho chiesto a mia sorella di non accendere candele o di spegnerle prima di andare a dormire, per sicurezza. Mia sorella mi ha risposto che ora le stanno accendendo in un contenitore di metallo sistemato in un piatto fondo pieno d’acqua. Se una candela dovesse rovesciarsi durante la notte quando tutti dormono, la famiglia sarebbe salva.
Come per ogni tragedia dovuta all’occupazione e all’assedio, i palestinesi hanno imparato la lezione e le cose migliori da fare. Come per ogni tragedia dovuta ad Israele, sono determinati a fare del loro meglio per essere sicuri che non tornerà a succedere. Ormai questa battaglia è andata avanti per decenni, e i palestinesi continuano a rallegrarsi del fatto di non essere impotenti, di continuare a protestare, non dimenticano né si arrendono, come sperano i dirigenti israeliani.
Nonostante le angosce che sono diventate la norma nella vita quotidiana dei gazawi, mia sorella mi ha augurato un anno felice e pacifico. Le ho risposto che anch’io le auguro un felice anno nuovo, un anno nel quale la Palestina si liberi dell’occupazione, dell’oppressione, del blocco e dell’apartheid.
– Ghada Ageel è una professoressa invitata del dipartimento di scienze politiche dell’università dell’Alberta (Edmonton, Canada), una studiosa indipendente, un’attivista e membro della Facoltà per la Palestina-Alberta e del Network di Solidarietà con la Palestina. Appartenente alla terza generazione di rifugiati palestinesi, è nata e cresciuta nel campo di rifugiati di Khan Younis nella Striscia di Gaza.
Le opinioni espresse in questo articolo riguardano l’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Eye.
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